Vivere in comunità: cosa abbiamo imparato?

La volontà di formare una società composita, senza distinzioni di alcun genere, dove gli uomini possano convivere tra loro grazie ad un unico codice civile e penale è sempre stata una delle massime priorità della nostra specie.

I filosofi e gli intellettuali più disparati hanno cercato di comprendere le dinamiche sociali dell’uomo, da cosa possa nascere l’idea di “comunità” e come questa possa essere amministrata in modo tale da garantire il benessere comune. Per gli uomini del ventunesimo secolo, il cosmopolitismo è un’idea scontata, quasi superflua, e le relazioni sociali con altre persone fanno ormai parte della nostra quotidianità.

Ma siamo sicuri di rispettare correttamente tutti i principi espressi dai filosofi molto tempo prima di noi?

La società si è davvero affinata e ha trovato il proprio equilibrio oppure siamo regrediti a pensieri retrogradi che, se concretizzati, potrebbero scatenare una divisione netta delle popolazioni?

Alcuni filosofi, come Grozio e Hobbs, parlano di “stato di natura”, una condizione in cui l’uomo vive all’insegna della semplicità e di regole basilari che gli permettono di convivere con i propri simili. Non esistono leggi, non esistono processi: nello stato di natura l’uomo è felice nella sua ingenuità ed ancora immaturo per unirsi in consorzio.

Ancora oggi alcune popolazioni indigene hanno preferito rimanere isolate dalla civiltà, prediligendo uno stile di vita semplice e che molti definirebbero “primitivo”, ma che dimostra grande attaccamento alle proprie tradizioni e culture più antiche e, soprattutto, il timore di queste persone nei confronti del progresso e di una società “organizzata”.

Questo accade perché, probabilmente, la nostra arroganza verso beni come la natura (per loro vera “madre” di tutte le cose, per noi elemento da sottomettere e piegare ai nostri voleri) ha scoraggiato questi popoli nel voler progredire, sia dal punto di vista tecnologico che politico, tanto da restare fedeli a ciò che realmente l’uomo dovrebbe preservare ed onorare per tutti i beni che ci concede, ma dei quali noi non ci accorgiamo nemmeno perché troppo presi dalla nostra “amministrazione”.

Le deforestazioni e l’ostilità verso queste persone sono la prova del fatto che l’idea di condivisione e di rispetto non è mai maturata del tutto nell’essere umano. Abbiamo rinnegato quello che, in origine, era il nostro vero governatore: la Natura. Un governatore umile, puro e che ci permetteva di apprezzare pochi ed essenziali beni, oggi ritenuti futili. E per cosa?

Per delegare il potere ad un unico organo, un organo politico che si prende gioco di noi tramite i mass media, composto da uomini di “potere” che, più che tali, sono la parodia di loro stessi e personaggi televisivi come tanti.

Persone che promettono senza mantenere, le cui parole servono solo per “tenere a bada” noi cittadini quasi come fossimo cani scodinzolanti. Se pensiamo unicamente al nostro io personale, non ci rendiamo conto che l’ordinamento universale e la collettività non sono omogenei e che spesso vige ancora la “legge del più forte”, per la quale i deboli vengono privati della loro libertà e della possibilità di vivere serenamente a causa di leggi raffazzonate e mal applicate.

La Storia ci insegna che il viaggio è forse la migliore forma di conoscenza; è tangibile e permette all’uomo di entrare in contatto con civiltà e tradizioni diverse ed affascinanti e di ampliare il suo sguardo sul mondo. Una vera e propria esperienza empirica e formativa. Il viaggio, tuttavia, in passato è stato anche sinonimo di conquiste e stermini (con Alessandro Magno, i conquistadores etc.).

La conoscenza delle popolazioni era spesso un pretesto per comprendere i “punti deboli” delle stesse, in quali campi erano evolute e in quali no, se fosse possibile convertirle ad una certa religione o meno o se fossero sufficientemente manipolabili da essere rese schiave.

Oggi, fortunatamente, non è più così. Purtroppo però, vuoi per le impossibilità economiche o per lo scarso interesse, sembra che la società occidentale abbia perso la volontà di scoprire, di esplorare e di addentrarsi in territori selvaggi e lontani dai centri abitati. I viaggi sono destinati al puro riposo, a mete turistiche più consone, accessibili ed accoglienti. Gli europei, almeno una volta nella vita, dovrebbero intraprendere altri tipi di “vacanza”, più atipici e forse impegnativi, ma dal medesimo valore culturale e soprattutto antropologico.

Avere a che fare con popolazioni residenti nel cuore delle foreste che vivono, cacciano e si nutrono come migliaia di anni fa può permetterci di evadere dalla nostra idea di società e di capire come il benessere risieda in primis nel modo in cui riusciamo a riconoscere il valore delle cose che ci circondano, senza aver bisogno di imposizioni e promesse di libertà.

La libertà è tale perché l’uomo è, in principio, una creatura libera. Nasciamo liberi e moriamo liberi. L’idea di dover sottostare a qualcuno che decida per noi stessi va contro la natura dell’uomo.

Viaggiando impariamo a capire, a tollerare, a rispettare.

Tre principi che, spesso, i nostri “superiori” trasgrediscono in nome di una felicità che, in realtà, è già presente nella nostra società, ma che abbiamo affossato con la convinzione di trovarne una maggiore.

L’idea del progresso e di un continuo miglioramento è innata nella ragione umana. L’uomo cerca, per natura, di arrivare sempre più in alto possibile, anche quando ha raggiunto la vetta del monte.

Ma la visione di un’esistenza sempre più perfezionata è troppo allettante. E allora si istituiscono leggi che hanno la pretesa di garantire il nostro benessere, con sistemi giudiziari discutibili e meccanismi corrotti.

Inoltre, i progressi tecnologici non solo monopolizzano il nostro mercato, ma ci rendono schiavi, avidi e in cerca di un prodotto sempre più efficiente e che riduca i nostri sforzi quotidiani.

I cellulari che ormai sono diventati una nostra appendice vitale hanno un’origine che dovrebbe far riflettere: in Congo vengono impiegati schiavi di tutte le età, bambini compresi, per la raccolta nelle miniere del coltan, il minerale primario che compone i nostri apparecchi elettronici. Queste persone lavorano per intere ore, spaccandosi la schiena, per una paga ridotta. E non sanno nemmeno perché gli facciano raccogliere tutto quel materiale!

Pensate quindi che ogni telefono che possedete o desiderate nasce da una fatica ingiustificata di persone che non hanno nulla e da uno schiavismo che facciamo finta di ignorare solo perché ne “beneficiamo”.

Dunque, finchè permetteremo questo, finchè non avremo interesse nel conoscere culture differenti, finchè qualcuno continuerà a non volersi sedere vicino ad una persona di colore sull’autobus, finchè le nostre menti verranno influenzate da continue menzogne e false speranze, finchè anche chi ha uno stile di vita diverso dal nostro verrà giudicato e privato dei nostri diritti, non potremo considerarci come un organo universale compatto.

Perché il mondo è uno solo, siamo noi ad averlo diviso, ma appartiene a tutti e tutti hanno il diritto di essere felici, perché, ancora prima di essere tutti figli di Dio, siamo tutti figli della Terra.

 

Riccardo Farina – Ufficio Stampa Liceo G.D. Cassini Sanremo