Non è poi così elementare, mio caro Watson

Nel settembre del 1929, un mese prima del crollo di Wall Street, Arnoldo Mondadori dimostrò di possedere un buon fiuto per gli affari lanciando la prima collana italiana di  racconti di detection, che prese poi il nome dalla famosa sovracopertina gialla.

Per l’esordio, la scelta cadde su La strana morte del signor Benson, dell’americano Willard Wright, più noto con lo pseudonimo Van Dine, poi toccò al britannico Wallace, primi di una serie di autori anglofoni interrotta solo al numero 21 pubblicato nel 1931.

In quell’anno il regime fascista impose agli editori di pubblicare in qualunque collana almeno un autore italiano ogni quattro stranieri, di conseguenza l’editore milanese individuò, nella sua scuderia, Alessandro Varaldo, ritenendo lui in grado di assicurare un prodotto di qualità e il suo nome garanzia di successo. Fu così che un ponentino, figlio di un savonese e di una ventimigliese, con Il Settebello, divenne il padre del giallo italiano e il commissario Ascanio Bonichi, ispirato ad uno stimato funzionario della stazione di polizia di Ventimiglia, il prototipo dei Maigret di casa nostra.

In realtà, già nel 1887, mentre in Inghilterra usciva la prima avventura di Sherlock Holmes, Emilio De Marchi pubblicava a puntate Il cappello del prete, un’opera che aveva le caratteristiche del romanzo di investigazione. Mancavano, però, nella società italiana, quei fattori di modernità necessari perché questo tipo di letteratura potesse svilupparsi e incontrare il favore dei lettori.

Il settebello e Le scarpette rosse, pubblicato dopo poche settimane, insieme raggiunsero le 40.000 copie vendute. Tali cifre non saranno più toccate con i titoli successivi ma il ghiaccio era rotto e ben presto al ligure si affiancarono autori come Lanocita, De Stefani, D’Errico e De Angelis.

Se De Marchi si trovò di fronte ad una modernità quasi inesistente, questi ultimi dovettero fare i conti con i problemi connessi ad una modernizzazione autoritaria, prodotto e strumento di un regime totalitario che mal sopportava il successo di opere in cui era messa in discussione l’immagine di una società ordinata e priva di contraddizioni decantata dalla propaganda ufficiale.

Da qui un crescendo di interventi: dal pressante invito a che il colpevole non sia un italiano e venga sempre assicurato alla giustizia fino al divieto di pubblicazione di libri di delitti e il sequestro di tutti i romanzi gialli in qualunque tempo stampati e ovunque esistenti in vendita. Alcuni si adeguano, D’Errico ambienta in Francia le sue storie, Varaldo introduce qualche velata critica alla polizia, mentre De Angelis paga con la vita la sua coerenza.

A questo punto è evidente come la storia del giallo italiano non riguardi solo la cultura pop ma abbia molto da dirci sul difficile rapporto della nostra società con il processo di modernizzazione e sulle dinamiche del totalitarismo.

 

Francesco Sarchi