Nonostante lo spoglio elettorale sia ancora in corso, è già chiaro che il quorum per questo referendum popolare del 2025 non sia stato raggiunto. Un dato preoccupante in un Paese mosso dalla democrazia, in cui la voce dei cittadini ha diritto di essere ascoltata e in cui il popolo ha il dovere di interessarsi al futuro del luogo in cui ha messo radici.

Meno del 50% degli aventi diritto si è recato alle urne, come – purtroppo – previsto da settimane. In Liguria, ad esempio, l’affluenza finale si è attestata al 35,07% con il dato più basso, pari al 24,17%, in provincia di Imperia. I pronostici, per l’imperiese come per l’intera Nazione, si sono rivelati esatti e hanno affossato le speranze di chi, questo Paese, lo avrebbe voluto diverso, più a misura di lavoratore e più accessibile per i futuri cittadini. Neanche il fatto che quattro dei cinque quesiti riguardassero il lavoro e i diritti dei lavoratori, temi di interesse e riscontro popolare, è riuscito a privare l’italiano medio dell’acqua del mare.

Dalla disinformazione spiccata e generalista fino all’invito esplicito all’astensione da parte dei maggiori rappresentanti del nostro Governo, passando per le date proposte e gli inceppi burocratici, il referendum è stato vittima di uno studiato sabotaggio prima ancora che i cittadini potessero tirare fuori dal cassetto la loro tessera elettorale.

Facendo un passo indietro, è debito ricordare che il voto, diritto e dovere fondamentale, è stato sudato da chi, prima di noi, non poteva far sentire la sua voce. Da chi, prima di noi, poteva solo sottostare al volere di pochi, non venendo rappresentato e tanto meno ascoltato. La nascita dei diversi partiti politici è una conseguenza diretta proprio di questo, una decisione necessaria al fine di consentire a ogni cittadino di rispecchiarsi in un’ideologia, di appartenere a un gruppo, di essere rappresentato in un contesto più ampio e articolato.

Non aver raccolto la nostra eredità, non aver esercitato i nostri diritti e doveri è ben più allarmante che mostrarsi contrari all’abrogazione, dunque alla modifica totale o parziale, di cinque leggi. Anche avere una propria opinione ed esprimerla è un diritto fondamentale, garantito dall’articolo 21 della nostra Costituzione; un diritto, anch’esso, voluto da chi, prima di noi, ha vissuto un’Italia che noi, oggi, possiamo solo immaginare. E noi, cittadini del 21esimo secolo, di un mondo più moderno, a tratti fuso con il digitale, lo abbiamo cestinato.

Non abbiamo raggiunto il quorum perché non vogliamo che lo straniero rovini la nostra terra, perché non vogliamo che un lavoratore possa essere reintegrato in un’azienda che l’ha licenziato ingiustamente, perché non vogliamo che lo stesso sappia perché avrà l’ennesimo contratto a tempo determinato, perché non vogliamo che la responsabilità di un infortunio avvenuto in ambiente e orario lavorativo cada su chiunque ne abbia anche la più piccola colpa, perché non vogliamo che un qualsiasi dipendente venga risarcito in modo giusto dopo aver perso il lavoro senza un motivo riconosciuto dalla legge.

Non abbiamo raggiunto il quorum perché il Capo del nostro Governo, la Presidente Giorgia Meloni, ha dichiarato sorridendo che non avrebbe ritirato le schede, perché i suoi Ministri ci hanno chiesto in modo esplicito di non esercitare un nostro diritto.

A chiederci di rinunciare a dire la nostra opinione è stato chi ci tutela, chi ci rappresenta dentro e fuori l’Italia, l’Unione Europea, il mondo intero. E no, non andare a votare non è stato un simbolo di dissenso. Aver preferito il sole caldo sulla pelle salata non è stata una presa di posizione. È stata solo una mancanza di rispetto per la nostra storia e per chi, queste leggi, sperava di abrogarle davvero. Non la sinistra, non il centro, non la destra, ma quella parte di cittadini che nel lavoro non si sentono pienamente al sicuro, i maggiorenni che prima di poter richiedere di definirsi legalmente italiani dovranno continuare ad attendere dieci lunghi anni. Quei giovani che vorrebbero un’Italia diversa, meno conservatrice su ciò che per il futuro non servirebbe conservare, come la paura dello straniero, la paura del diverso, la paura del cambiamento.

Non stupisce che la maggior parte dei pochi che hanno scelto di votare siano giovani. Soprattutto, e di nuovo purtroppo, non ha colto alla sprovvista che la gran parte degli italiani abbia preferito andare al mare, riposarsi a casa, ignorare uno strumento del popolo come il referendum.

La disinformazione ha giocato un ruolo fondamentale: tra chi ha parlato sui social media di “soldi dei cittadini buttati per colpa della sinistra”, chi di diritti dei lavoratori “persi” con le modifiche proposte dal sindacato della Cgil, chi ha urlato a gran voce che i criminali sarebbero divenuti “concittadini degli onesti italiani”, di noi patriottici lavoratori, perseveranti nella legalità in ogni sua forma, eccezione fatta forse per qualche piccolo scivolone nel versante fiscale.

Oltre il 50% degli italiani non è andata a votare e, di questo 50%, c’è chi non ha neanche capito quali fossero le abrogazioni proposte, perché la disinformazione ha fatto da sovrana. Perché il diritto di esprimere la propria opinione ha superato il dovere di avere una conoscenza approfondita dell’argomento. Perché il voto di alcuni, che dovrebbe per natura essere segreto e soprattutto non condizionato, è stato svelato in anticipo, condizionando il nostro. Con informazioni confuse, invito all’astensione, con la netta divisione tra destra e sinistra che, ancora oggi, porta una persona a rinnegare o accettare a braccia aperte una proposta di legge. Perché conta più chi propone un cambiamento, piuttosto che il valore che potrebbe assumere quello stesso cambiamento.

A votare sono stati principalmente chi sogna ancora un’Italia diversa e chi sa cosa significa essere costretti al silenzio. Buona parte di chi sta nel mezzo ha invece scelto il mare, le vacanze, la comodità della propria casa, la sicurezza della propria bolla.

Chi non è andato a votare ha scelto per tutti coloro che a votare ci sono andati, e allo stesso tempo non ha compiuto alcuna scelta. Non ha esercitato un diritto fondamentale, per cui i nostri antenati hanno lottato, e ha mancato del dovere più grande che un qualsiasi cittadino ha nei confronti di uno Stato democratico, dei suoi figli, dei suoi genitori e dei suoi stessi ideali: votare. E, a noi italiani medi, questo sta bene, questo fa piacere. Questo ci fa esultare, ci fa gridare a gran voce “meno male”.

Questo, però, ci fa anche restare indietro. Ci tiene ancorati a un modello di Italia che, volenti o nolenti, non può più essere attuale. Un modello che distingue ancora aspramente tra destra e sinistra, che non guarda alla totalità delle persone che abitano un Paese, ma al confine geografico, alla tradizione, alla staticità.

Mentre la maggior parte degli italiani non ha votato, la percentuale più piccola dei nostri concittadini ha provato a confrontarsi con il Governo, a dire la propria opinione nonostante la disinformazione e l’invito all’astensionismo. La loro voce, però, è stata soffocata. La voce di tutti noi è stata soffocata perché, da una democrazia in cui ci si rifiuta di segnare una “X” su un foglio di carta, nessuno esce vincitore.

Sì, il lavoratore non avrà più diritti e lo straniero legalmente residente, nostro collega o compagno di scuola dei nostri figli, non potrà chiedere la cittadinanza dopo solo cinque anni. Ma no, questo risultato non è una vittoria. Come neanche l’abrogazione delle leggi lo sarebbe stata. Tutto ciò che dovremmo sentire, in quanto cittadini italiani, è il gusto amaro della sconfitta, perché abbiamo preferito tacere piuttosto che esprimerci.

E questa, purtroppo, è l’Italia in cui viviamo oggi, che abbiamo costruito con le nostre mani, mattone dopo mattone, anno dopo anno. E di questo, purtroppo, forse pagheremo lo scotto quando sarà ormai troppo tardi.