morti sul lavoro

Nel solo anno 2023 le morti sul luogo di lavoro in Italia sono state 1.467, di cui 22 in Liguria.

Si tratta di persone decedute nell’atto dello svolgere le loro mansioni, più comunemente conosciute come “morti bianche”. Mentre in passato si utilizzava la definizione di “caduti del lavoro” o di “omicidi del lavoro”, il termine utilizzato a oggi venne coniato negli anni ‘60 del 1900 dal movimento operaio, con l’intento di enfatizzare la pericolosità connessa alle attività industriali.

Tali tragedie riguardano tutto il mondo e, nel piccolo, anche il comprensorio intemelio.

A questo proposito lo scorso 4 maggio la piazzetta della Chiesa Santi Pietro e Paolo a Grimaldi Inferiore, frazione di Ventimiglia, è stata intitolata alla memoria della guardia di pubblica sicurezza Sebastiano Carpineta.

Un giovane di 24 anni che, 55 anni fa, nel 1969, morì travolto da un tir avente i freni rotti mentre svolgeva il suo lavoro: controllare i passaporti di chi varcava la frontiera italo-francese di Ponte San Luigi. Una disgrazia accaduta oltre mezzo secolo fa, ricordata pubblicamente sabato 4 maggio 2024 con una targa in marmo.

Le cosiddette “morti bianche” di cui non si tramanda la memoria, di cui non si conosce la reale storia, in realtà sono molte di più.

Risultano innumerevoli i nomi protagonisti della cronaca e delle chiacchiere mondane per un paio di giorni, poi dimenticati dalla collettività.

A ricordare il volto, la voce, le passioni, i sogni, le paure e gli affetti dei morti sul lavoro non è lo Stato, non è la Regione, non è la Provincia e purtroppo, nella maggior parte dei casi, non è neanche la popolazione locale. 

Lo scalpore e il rammarico per una morte tanto tragica sono temporanei. Ed è quasi sorprendente come, quando il decesso è cruento e legato all’ambito lavorativo, l’identità della persona venga a tratti soffocata dall’entità della sua fine.

Cosa si ricorda dei tanti nomi incisi sulle targhe commemorative sparse per le strade o degli innumerevoli individui citati un articolo di giornale? Il modo in cui sono morti. Lavorando. 

Travolti da un tir. Schiacciati dal peso di un camion che si è ribaltato. Pietrificati da un cumulo di terra che li ha sommersi. Precipitati da una impalcatura. Incastrati in un macchinario.

Una lastra incisa oppure una manciata di parole rendono giustizia a uomini e donne deceduti in condizioni di sicurezza precaria? Perché, sfortunatamente, nella maggior parte dei casi si tratta proprio di questo: sicurezza limitata, dubbia, inesistente o insufficiente.

Come è possibile che un tir circoli con i freni rotti e uccida un giovane di 24 anni come Sebastiano Carpineta? 

Era il 1969 e, teoricamente, il progresso aveva avuto il suo corso. Nella quotidianità dei fatti, però, si può dire tutt’altro e infinite storie ne sono l’esempio.

Se l’evoluzione dei macchinari e dei mezzi lavorativi è effettivamente avvenuta, allora perché il 23 settembre del 2004 un masso è precipitato dalla sommità di un muro di contenimento in corso di realizzazione a Castelvittorio travolgendo l’operaio George Bogdan Butanescu di 30 anni? 

Per quale motivo Giorgio Licitra, 57 anni, è precipitato da un’impalcatura a Cagne sur Mer nel 2021?

Come mai nel 2022 Carmelo Spanò, 51 anni, è caduto da una scala collegata a un ponteggio a Ventimiglia?

Qual è la ragione per cui il camion con cui lavorava Michele Zuppardo, 60 anni, si è ribaltato schiacciandolo sotto di sé e non dandogli scampo il 21 aprile 2023 in un cantiere privato a Mentone?

Perché il defender dell’Esercito Italiano su cui viaggiavano Leonardo Sensitivi di 54 anni, Tiberio Ghelardini di 58 anni e Michele Pellegrino di 37 anni è caduto giù da un dirupo nella strada per Villatella nel giugno del 2023?

Come ha fatto uno smottamento di terra a sommergere Lorenzo Matarese, 62 anni, mentre lavorava in un cantiere a Cannes il 3 aprile 2024?

Il progresso è tangibile, inevitabile, persino naturale. Tuttavia riguarda davvero anche la sicurezza sul lavoro?

Delle tante persone sopra citate e per le innumerevoli non riportate, in quanti ricordano chi erano prima dell’istante che ha messo fine alle loro vite? 

Le famiglie, a volte i conoscenti, raramente la collettività. Una morte bianca colpisce, sconvolge, ma distrugge soltanto la vittima e il suo nucleo familiare.

Qual è la verità dietro una morte bianca che di bianco non ha proprio nulla

Bianco è il colore del candore, della purezza, dell’innocenza. Il colore delle spose, della neve, delle bare dei bambini. Una morte sul lavoro è davvero una morte bianca? Il modo in cui avviene piuttosto richiama alla mente il suo opposto, il nero. Violento, insondabile, crudo, una voragine in cui prontamente si può cadere.

Complice la durata delle indagini giudiziarie conseguenti a una morte sul lavoro, miriadi di casi vengono lasciati indietro mentre il mondo va avanti e ripete i suoi stessi errori.

A capire davvero l’entità della perdita di Sebastiano Carpineta, George Bogdan Butanescu, Giorgio Licitra, Carmelo Spanò, Michele Zuppardo, Leonardo Sensitivi, Tiberio Ghelardini, Michele Pellegrino, Lorenzo Matarese e le restanti innumerevoli vittime del lavoro è chi queste persone le ha realmente perse.

A sentire nel profondo il peso di un’assenza imputabile al lavoro è chi aspettava il rientro a casa di un padre, una madre, un fratello, una sorella, un figlio, una figlia, un marito, una moglie, uno zio, una zia, un nonno, una nonna, mai avvenuto.

È chi ha risposto alla telefonata della polizia, del collega, del datore di lavoro, del conoscente. È chi, nonostante il lutto, ha dovuto avvertire il resto della famiglia. È chi è stato costretto a sentire una frase terrificante, capace di stravolgere un intero castello di certezze costruito con cura nel corso del tempo, e farci i conti.

Chi ha lottato e ancora combatte a denti stretti per sapere cosa è successo e perché, per conoscere di chi è la colpa, per capire per quale assurda ragione nessuno vuole vedere che una responsabilità esiste e non è della vittima. Non è mai della vittima.

Chi si ritrova a non riuscire ad allentare il groppo in gola all’ennesima, simile, evitabile, tragedia lavorativa che ha strappato una persona cara alla sua famiglia.

Sono loro a ricordare le vittime del lavoro, a pagarne il prezzo, a doverne difendere la memoria, l’impegno, l’attenzione. Perché quando un dipendente è vittima di una tragedia durante l’orario di impiego anche un’altra realtà fuoriesce con forza: la diffamazione.

Nella maggior parte dei casi il pettegolezzo ingenuo nasce e si diffonde come una macchia d’olio e da vittima si diventa in un battibaleno colpevole.

Colpevole di non aver messo i guanti, di non aver indossato correttamente l’imbracatura, di non aver stretto bene le corde, montato il ponteggio, assicurato i piedi del camion, fissato la scala, allacciato le scarpe in modo appropriato.

Perché la prima reazione dell’essere umano di fronte a una tragedia che non lo riguarda personalmente è chiacchierare. Supporre. Discutere. Senza il benché minimo fondamento, a danno di una famiglia che si ritrova a cenare con un posto vuoto a tavola e un silenzio disarmante tutto intorno.

Di queste morti cariche di ingiustizia, dolore, rabbia e talvolta speranza di ottenere la verità chi serba con cura la memoria? 

Chi quando parla di una qualsiasi di queste persone a primo acchito pensa al suono di una risata, al colore di due iridi, a desideri, idee e progetti?

Quanti individui devono ancora morire lavorando perché la popolazione urli “no”?

Dobbiamo necessariamente conoscere il dolore di una perdita forzata e innaturale per volere un cambiamento? Dobbiamo per forza essere figli, coniugi, genitori, fratelli, nipoti, zii, nonni, cugini o amici di una vittima del lavoro per fare nostra la causa? Per richiedere che un nostro diritto venga trattato come tale e non come mera fortuna?

Quanti altri devono chiudere gli occhi perché noi possiamo aprirli?